“Noi argentini siamo diritti e umani”. È il motto utilizzato dalla tristemente celebre propaganda ufficiale con la quale il governo militare argentino cercò di screditare la visita della Commissione Interamericana dei Diritti Umani (CIDU) della OSA (Organizzazione degli Stati Americani) che si installò in Argentina per 14 giorni nel settembre 1979 per esaminare la situazione nel Paese. Uno slogan raccapricciante se si pensa che dal 1976 (anno in cui il generale Jorge Rafael Videla Redondo capeggiò il colpo di stato con cui Isabelita Perón fu sostituita da una giunta militare) al 1983 in Argentina si diffuse il fenomeno dei desaparecidos (letteralmente “persone fatte scomparire”), coloro che, una volta sequestrati, non risultavano nei registri dei commissariati di polizia. Uomini e donne che subirono, in centri di detenzione clandestina, abusi, violenze e torture da parte delle forze armate e dai carnefici della dittatura. Di 30mila di loro si persero completamente le tracce.
“Noi argentini siamo diritti e umani” è anche il titolo dello spettacolo-documentario andato in scena a Cascina Commendalo scorso 29 aprile.
Nato da un’idea di Enrica Chiurazzi e Claudia De Candia e scritto dalla drammaturga Giulia Donelli, è tratto dal libro “Memoria del buio”, una raccolta di testimonianze di 112 donne imprigionate a Villa Devoto tra il 1974 e il 1983. Lettere scritte ai familiari, agli amici, ai figli lasciati a casa. I diari ai quali hanno affidato emozioni e paure che le accompagnarono nella vita in prigione. In scena, due personaggi agli antipodi per carattere e credo politico (Cachita è una sarta imprigionata senza sapere il perchè e Berta, “la negra”, è una politicante venticinquenne che si batte per gli ideali in cui crede) che affrontano unite una situazione drammatica. «Leggendo il libro – ha dichiarato Enrica Chiurazzi – abbiamo sentito la solidarietà nata tra queste donne. E il sorriso è stato la vera forza che ha permesso alle detenute di Villa Devoto di vivere quegli anni». Un “carcere vetrina” da offrire al mondo, una facciata presentabile e legittima da esibire di fronte alle organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani e alle delegazioni straniere presenti ai mondiali di calcio del 1978, durante i quali, ha spiegato Claudia De Candia, «Vandela pronunciò quella frase, che proprio per l’ironia agghiacciante abbiamo deciso di utilizzare come titolo dello spettacolo».
Un lavoro teatrale intenso e toccante. Sapientemente e accuratamente rielaborato intorno alle due protagoniste. «Con Cachita e Berta – ha continuato Chiurazzi – abbiamo voluto far vivere tutte le 112 donne. Grazie all’incontro con Estela Robledo, curatrice dell’edizione italiana del libro, abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con alcune di loro via mail dal sud America. Avevamo bisogno di “materiale umano” per rispecchiare il più fedelmente possibile la realtà e la disumanità di un periodo buio della storia dell’Argentina».
La ricchezza della rappresentazione sta nel recupero della memoria, nella bravura, nell’impressionante presenza scenica e nell’intensità con la quale le due giovani attrici hanno interpretato i loro ruoli. La scenografia, essenziale nelle luci e povera nei materiali, ma ben studiata per conferire continuità, ha arricchito anche i cambi di scena a palco aperto. Il pubblico attento e interessato è rimasto ipnotizzato dal palcoscenico e nel finale, con rispettosa esitazione, è esploso in un applauso appassionato.